Eduardo Vega-Patiño fotografa ciò che spesso resta invisibile: il fragile equilibrio tra la realtà di un corpo e il suo significato emotivo, tra forza e vulnerabilità.
Le immagini di Eduardo Vega-Patiño non si accontentano di mostrare; registrano, senza orpelli, quel momento sospeso in cui l’essere umano si rivela, con un’onestà che sembra trascendere il tempo.
Nato a Panamá, Eduardo Vega-Patiño ha trovato nella fotografia non solo un mezzo espressivo, ma un linguaggio necessario, un atto di resistenza e celebrazione contro una cultura che restringeva il concetto stesso di rappresentazione.
Le sue opere raccontano un mondo che si muove tra la cruda bellezza del presente e l’aspirazione a un tempo immobile, in cui il corpo — spesso nudo, sempre vulnerabile — diventa una mappa emotiva.
In questa intervista, Eduardo Vega-Patiño si addentra nei processi e nelle motivazioni che guidano il suo lavoro, invitandoci a guardare oltre l’apparenza. Attraverso le storie che emergono da ogni piega, ogni sguardo e ogni ombra catturata dalla luce, Eduardo Vega-Patiño costruisce un dialogo non solo tra fotografo e soggetto, ma con la natura stessa della bellezza, intima e universale.
Come descriveresti il tuo stile fotografico?
Direi che registro le vite delle persone. È più vicino a essere un documentarista. La mia unica intenzione nelle mie foto è catturare una situazione, un movimento o una circostanza dei soggetti di fronte alla mia macchina fotografica. Non aspiro a che quel “registro” sia altro.
Qual è stato il tuo percorso verso la fotografia artistica? C’è stato un momento specifico in cui hai capito che questa sarebbe stata la tua carriera?
Da quando ho avuto la mia prima fotocamera digitale Hewlett Packard, quando ero adolescente, ho capito che c’era qualcosa nell’atto di vedere qualcosa e poterlo catturare in modo diverso attraverso un mezzo. Quel mezzo è diventato la fotografia, anche per la mia mancanza di abilità in altri mezzi visivi, come il disegno o la pittura. All’inizio fotografavo solo animali, insetti e paesaggi, ma la prima volta che ho fotografato qualcuno in un contesto intimo, ho realizzato quanto fosse diverso tutto.
L’universo interiore che ognuno ha e che a volte resta nascosto mi ha affascinato. Ho trovato onestà e verità.
Come scegli i tuoi soggetti e le location per i tuoi scatti?
Di solito ci sono tre possibilità: soggetti a casa loro (di solito la prima volta che li vedo davanti alla macchina fotografica), soggetti a casa mia, oppure soggetti che conosco da un po’ di tempo e che fotografiamo in paesaggi naturali o edifici abbandonati.
L’aspetto chiave è la solitudine: mi piace che i miei soggetti si sentano liberi e a loro agio, senza persone che guardano.
Il processo di selezione parte spesso da qualcosa di unico che ho notato in loro, online o di persona. A volte, sono loro a venire da me con idee, e lavoriamo insieme verso quell’obiettivo.
C’è un significato o un messaggio particolare che intendi trasmettere attraverso le tue fotografie?
Che un registro di intimità può essere sia estetico che normale. Tutti dobbiamo affrontare l’intimità quotidianamente, ma c’è una tendenza a legare sesso, nudità e intimità insieme, spesso collocandoli nella categoria della pornografia. Mi piacerebbe che le persone si rendessero conto che il tempo passa, e che questi “registri” possono diventare ancore nel tempo.
In che modo la tua cultura o il luogo in cui sei cresciuto influenzano il tuo lavoro artistico?
In modo significativo. Sono cresciuto a Panamá, dove questo tipo di contenuto era vietato. Non c’era nessuno che lo facesse. Le uniche forme di fotografia vagamente vicine erano quelle pubblicitarie con donne in bikini. Quella realtà così triste e limitata mi ha spinto a creare un corpus di lavori fotografici che avrei voluto vedere da giovane.
Qual è la parte più difficile del processo creativo per te?
Spiegare il processo e trovare il soggetto giusto. È essenziale creare spazi sicuri affinché i soggetti possano lasciar andare insicurezze e vergogne. Ogni volta che lavoro con un nuovo soggetto, devo ricominciare da capo, comprendere la loro situazione e affrontarla con empatia, in modo che il processo risulti orizzontale e collaborativo.
Cosa ti spinge a esplorare la nudità maschile come soggetto principale delle tue fotografie? C’è una motivazione personale o artistica specifica?
All’inizio era semplice: gli uomini gay tendevano, 12 anni fa, a mostrare più pelle rispetto ad altri. Nel tempo, però, il focus si è spostato verso un viaggio più emotivo e crudo, per compensare la mancanza di rappresentazioni simili. Gli uomini sono spesso rappresentati in modi normativi. Il mio obiettivo è mostrare l’uomo vulnerabile che tutti siamo.
Come costruisci una relazione di fiducia con i modelli che posano per te?
Parliamo molto. Spiego tutto: il processo, la dinamica dello scatto, il dopo, la gestione delle immagini. I soggetti sono creatori tanto quanto lo sono io. E cominciamo sempre con un caffè per conoscerci meglio.
Il corpo maschile nel tuo lavoro sembra esprimere sia vulnerabilità che forza. Quali aspetti dell’identità maschile desideri esplorare e rappresentare?
Esattamente entrambi: forza e vulnerabilità coesistono. Uno ha bisogno dell’altro. Il corpo maschile è una tela per emozioni che spesso non trovano un altro sfogo. Non mi interessa il tipo di corpo o l’orientamento, ma mi emoziona rappresentare un soggetto maschile che possiede sé stesso senza paura.
Hai mai incontrato resistenze o difficoltà nel trovare modelli maschili disposti a posare nudi? Come gestisci tali situazioni?
Lascio che scelgano il livello di nudità con cui si sentono a proprio agio. Se c’è un “no”, resta tale. Deve venire dalla loro volontà, altrimenti si riflette nel corpo, rendendolo teso o imbarazzato.
Ci sono stati momenti nella tua carriera in cui hai percepito giudizi o stereotipi sul tuo lavoro sui corpi maschili? Come li hai affrontati?
Sì, spesso. Dalla censura sui social media ai commenti di persone che dicevano che facevo foto “di persone che fanno sesso”. Ho imparato a ridere di questi giudizi perché spesso dicono più sugli altri che su di me. Mi interessa solo l’opinione dei soggetti con cui lavoro; le altre possono restare rilevanti solo se lo scelgo io.
Qual è la tua idea di bellezza maschile e come intendi catturarla nei tuoi scatti?
Onestà e assenza di vergogna. Quando un soggetto, maschile o femminile, è onesto e senza vergogna, è lì che ottengo le mie foto preferite. Non si tratta solo di bellezza esteriore, ma anche di coerenza interna.
Come bilanci la bellezza estetica con la crudezza della realtà nella tua fotografia di nudo maschile?
Dipende dal soggetto, ma tutto si gioca su come scatti la foto: come rispetti la crudezza mantenendola estetica. È un viaggio che coinvolge luce, posizionamento, obiettivo e molte altre variabili.
Nel tuo lavoro, quanto spazio lasci all’interpretazione del pubblico rispetto alla trasmissione di un messaggio preciso?
Lascio sempre spazio all’interpretazione. La censura sui social media stimola l’immaginazione. L’unica cosa che sottolineo è che ciò che si vede è ciò che sta accadendo: non c’è finzione nelle situazioni o nelle azioni.
In quale misura il contesto di Barcellona ha arricchito o sfidato la tua produzione artistica?
Barcellona è stata liberatoria. Qui le persone comprendono e accettano questo tipo di fotografia senza pregiudizi. Negli ultimi anni, grazie alla normalizzazione attraverso social come Instagram e Twitter, ho trovato sempre più soggetti interessati.
Come gestisci l’equilibrio tra estetica e provocazione nelle tue opere?
È qualcosa che costruisco caso per caso, parlando con i soggetti e trovando un terreno comune. Gioco spesso con l’idea del voyeur, usando porte o stanze per creare un’atmosfera che sia meno esplicita e più giocosa, evitando di oggettivare.